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Allenamenti (32)

Il progressivo - di Giacomo Bugiani

Ormai quasi tutti i runners conoscono questo mezzo di allenamento, ma quanti sanno davvero adattarlo al meglio al proprio programma?

La seduta del progressivo consiste nel percorrere una determinata distanza a velocità crescente.

Questo tipo di allenamento apporta notevoli benefici nel runner:

  • aumenta la potenza lipidica (capacità di bruciare, in proporzione,   una maggior % di lipidi);
  • aumenta la capacità dell’organismo di reclutare fibre veloci nel procedere dello sforzo;
  • aumenta la capacità di adattarsi ai cambi di velocità;
  • allena la capacità piscologica di “non mollare”.

In linea generale il progressivo permette di agire sulle 3 componenti utili al runner: massimo consumo di ossigeno, soglia anaerobica, resistenza aerobica.

Quale lunghezza?

Il progressivo può variare dai 6 ai 20Km (ma anche oltre per la maratona!).

Grossomodo, in base alla distanza gara, possiamo impostare il progressivo come segue:

5000m: 8-10Km

10000m: 10-12Km

Mezza Maratona: 10-15Km

Maratona: 15-20Km

 

Quale velocità?

Il più classico dei progressivi prevedere una suddivisione della distanza in 3 frazioni da correre rispettivamente alla velocità del Lento, Medio e Ritmo Gara (RG, intendendo il ritmo medio ottenuto in una gara di 10-12Km).

La frazione del Lento sarà maggiore di quella del Medio che sarà maggiore a sua volta di quella del RG.

Es. Progressivo di 10Km: 5Km L + 3Km M + 2Km RG.

 

Quante frazioni?

Esistono innumerevoli varianti del progressivo; personalmente prediligo sempre quello classico a 3 frazioni, ma per rendere meno abitudinale la seduta e per agire maggiormente su una componente rispetto alle altre, sono possibili anche variazioni sul tema, tra cui:

  • a 2 frazioni;
  • a 4 frazioni;
  • Bis e Tris (vedi “Andiamo a correre” di Fulvio Massini), cioè miniprogressivi da ripetere in serie;

 

Quante volte?

A mio parere il progressivo non deve essere eseguito più di una volta a settimana; per variare il programma trovo utile inserire una settimana il Progressivo e la successiva il Medio.

E’ un lavoro impegnativo; per chi è abituato a correre tutti i giorni può essere preceduto o seguito da un Lento, mai da un lavoro.

 Adesso che abbiamo fatto un ripasso non ci resta che passare dalla teoria alla pratica!

 

 

Bibliografia:

L'importanza del riscaldamento

 

Prima di svolgere qualsiasi attività fisica è importante fare un buon riscaldamento. Questa è una fase molto personale, che ognuno perfeziona e personalizza a modo proprio, ma bisogna comunque tenere conto di alcuni principi generali come: l’aumento della temperatura, l’aumento della frequenza cardiaca, l’attivazione neuro-muscolare dei distretti interessati.

Per i runner, un buon riscaldamento favorisce la messa a disposizione dell'emoglobina, attiva le reazioni metaboliche e la funzionalità di alcuni organi molto importanti per la corsa come il cuore, il fegato, i polmoni e i reni e attiva la produzione di adrenalina. Infine, ma non meno importante, prepara mentalmente l'atleta allo sforzo che dovrà sostenere: è questo il momento in cui l’atleta inizia la propria concentrazione, focalizzando gli obiettivi dell’allenamento o della gara.

Tra i fattori che influenzano la fase di riscaldamento ci sono l'età, il livello di preparazione, il tipo di gara o allenamento che si deve affrontare, il clima. Come abbiamo detto precedentemente, il riscaldamento può variare da individuo a individuo sia per durata, che per intensità: più un atleta è prestante, più intensa sarà la fase di preparazione alla prestazione e viceversa.

Se ci si appresta a correre una gara per la quale l’intensità è molto alta, come ad esempio una gara di 100mt., prima di partire bisogna che vengano attivati tutti i sistemi affinché si abbia la migliore prestazione. Di contro, se un principiante si appresta a correre per la prima volta una maratona, svolgere un riscaldamento dove si ricercano stimolazioni eccessive può essere anche controproducente. Se siamo di fronte ad un atleta che è avanti con l’età, allora la fase di riscaldamento sarà più lunga, in quanto il metabolismo è più lento e impiega più tempo per attivarsi.

Anche il clima ha la sua importanza. In estate, quando le temperature sono elevate, è consigliabile ridurre il riscaldamento per non eliminare troppi sali minerali; durante l’inverno, in particolar modo con temperature rigide, è preferibile allungare i tempi del riscaldamento, tenendo i muscoli ben caldi, coperti con indumenti idonei.

Un buon riscaldamento può essere rappresentato da una corsa blanda d’avvio, con gli ultimi minuti un po’ più veloci per spezzare il fiato. Subito dopo è bene eseguire degli esercizi di stretching attivo (evitare lo stretching passivo perché ha un’azione inibitoria). Infine, effettuare degli allunghi di circa 80/100mt. qualche minuto prima dell'inizio della gara o dell'allenamento.

Tratto dal sito www.runningitalia.it

L'importanza della corsa lenta nell'allenamento alla maratona

Quando si vuole preparare una maratona con l’obiettivo, non solo di tagliare il traguardo, ma di percorrere la distanza in un determinato tempo, allora la costruzione della performance deve passare necessariamente attraverso determinati step. Vediamo nel dettaglio quali sono gli obiettivi fisiologici e le caratteristiche principali dei mezzi di allenamento alla maratona.

Il primo obiettivo è quello di migliorare l’apporto di ossigeno ai muscoli. L’allenamento che determina questo miglioramento è la corsa a frequenza cardiaca vicina a quella massima (a 10-12 battiti/min da essa).

Il secondo obiettivo da perseguire riguarda il miglioramento della potenza lipidica, cioè della capacità di utilizzare i grassi quando si corre al livello di soglia aerobica. Questo si ottiene con corse di durata ed intensità tali da determinare il consumo del grasso endomuscolare, generalmente con i lunghissimi.

Infine, il terzo obiettivo riguarda l’aumento del depositi muscolari di glicogeno, che si ottiene con corse di durata e intensità tali da determinare il consumo del glicogeno muscolare.

 

La seduta di allenamento denominata in maniera impropria “corsa lenta”, meglio definita come corsa a bassa velocità, è costituita da una corsa condotta a velocità ben inferiore a quella di soglia aerobica, cioè del ritmo della maratona. La corsa lenta non incide sull’apporto di ossigeno ai muscoli, né la sua durata può essere tale da impoverire le riserve di trigliceridi endomuscolari, quindi non sembra in grado di determinare aumenti delle scorte di glicogeno né di migliorare la potenza lipidica. Eppure i maratoneti che nelle loro tabelle di allenamento riducono in misura significativa il chilometraggio a bassa velocità, hanno un peggioramento delle loro prestazioni.
Negli ultimi anni l’allenamento alla maratona di alto livello ha avuto una tendenza ad una riduzione del chilomentraggio totale con un contemporaneo aumento percentuale del lavoro più qualificato, cioè quello ad intensità superiore o simile alla gara. Ci sono casi eclatanti di Keniani che con 180 km settimanali hanno avuto prestazioni sotto le 2h 10m.

 

Alla luce di quanto detto, a cosa può servire un utilizzo quantitativamente così rilevante del lavoro a bassa intensità?

Vi sono varie interpretazioni, ma quella che sposiamo noi è che esso favorisce il turnover delle fibre muscolari, determinando importanti adattamenti soprattutto nelle fibre che non intervengono nella maggior parte degli allenamenti più importanti. Con la corsa a bassa velocità si attivano le fibre muscolari che non intervengono nella prima parte della maratona, ma soltanto più tardi, quando sono state messe “furori uso” le fibre che hanno cominciato a lavorare dall’inizio.

Si può pensare che il lavoro lento contribuisca a consumare una parte del glicogeno e dei trigliceridi contenuti in alcune fibre muscolari, in particolare le fibre rosse (cariche di globuli rossi) dette fibre della resistenza o lente. Quando è esaurito il compito di queste fibre si passa necessariamente all’utilizzo delle fibre di tipo veloci ossidative e qui avviene il miglioramento. Queste fibre sono quelle che hanno una maggiore rilevanza a livello prestativo. In queste fibre si manifesta l’aumento dei mitocondri, gli enzimi del meccanismo aerobico che contribuiscono ad aumentare i depositi di glicogeno ed a lubrificare il meccanismo di utilizzo dei trigliceridi.

In conclusione possiamo dire che la corsa a bassa velocità, anche se non è direttamente correlabile per tipologia di allenamento alla prestazione, rappresenta la base su cui si poggerà tutta l’impalcatura dell’allenamento, ecco perché rappresenta la percentuale più alta come mezzo di allenamento alla maratona.

Articolo di Salvatore Pisana tratto dal sito www.runningitalia.it

Ciclisti, maratoneti, fondisti: ecco perché avete il cuore d’atleta

Aneddoti e racconti su quanti pochi battiti facesse il cuore di atleti come Fausto Coppi (si dice meno di 40 volte al minuto), Lance Armstrong (una trentina) o Alex Schwazer (addirittura 28 al minuto rispetto a una sessantina delle persone ‘normali’) sono ormai passati dalla cronaca allastoria, ed è ormai altrettanto riconosciuto da tutti, medici, preparatori e atleti che praticareregolarmente sport di resistenza come il ciclismo, la corsa a piedi su lunghe distanze, il triathlon o losci di fondo riduce sensibilmente la frequenza cardiaca.

Si tratta del fenomeno dellabradicardia, un adattamento del tutto naturalee che normalmente è anche benefico, perché migliora l’efficienza contrattile del cuore e in buona sostanza lo fa funzionare meglio, sia durante l’attività fisica che a riposo.

Ma è anche noto a tutti, in letteratura scientifica come nel comune sentire, chepraticare intensi sport di resistenza per lunghi periodi(si parla di anni, se non decenni) possa dar luogo in alcuni soggetti a talunidisturbi cardiaci: per esempio le aritmie, più frequenti negli atleti anziani e che spesso richiedono l’impianto di un pacemaker.

Ciò che non era ancora chiaro sono imotivi dell’insorgenza della bradicardia: poiché il ritmocardiaco è controllato dal sistema nervoso simpatico e parasimpatico, e poiché il primo accelera ilritmo cardiaco, si presumeva di conseguenza che la diminuzione del numero di battiti del cuore alminuto negli atleti di sport di resistenza fosse dovuta a un aumento dell’attività del nervo vago del sistema nervoso parasimpatico.Maggior tono vagale = minor numero di battiti cardiaci.

Ora uno studio condotto dall’Università di Manchester e dal Dipartimento di Bioscienze della Statale di Milano e pubblicato suNature Communicationsparrebbe dimostrare come in realtà il cuore d’atleta sia conseguenza diun vero e proprio rimodellamentodel muscolo cardiaco.

L’esperimento è stato condotto su dei roditori e attende la verifica sugli esseri umani, tuttavia la differenza tra topi ‘allenati’ e topi ‘sedentari’ starebbe nella modificazione della corrente che controllala generazione e la frequenza del ritmo cardiaco: la correntefunny,o corrente del pacemaker. L’allenamento di resistenza modificherebbe a livello molecolare i canali che permettono il funzionamento di questo meccanismo, determinando sul breve periodo l’effetto bradicardico e sul lungo periodo le modificazioni responsabili delle aritmie cardiache in atleti di età avanzata.

Tutto ciò ovviamente non significa chefare sport di resistenza sia pericoloso in sé. Anzi, una costante attività fisica, anche di resistenza,migliora l’efficienza cardiaca e permette di mantenere sotto controllo il peso(altro fattore di stress per il cuore). Se i risultati dello studio effettuato fra Manchester e Milano saranno confermati anche sugli umani, probabilmente sarà più chiaro il modo in cui preservare la salute cardiovascolare degli atleti, anche anziani.

Tratto da http://www.sportoutdoor24.it

 

L'alimentazione del podista

alimentazione-pre-garaI fattori che influiscono la prestazione sportiva, sia che si tratti di un "top runner" sia che si tratti di un "podista amatore", sono diversi. Tra i più importanti troviamo: una programmazione dell'allenamento secondo principi fisiologici adeguati; una corretta alimentazione che tenga conto delle caratteristiche fisiche e del tipo di allenamento che si sostiene; il monitoraggio periodico dei parametri funzionali, importante per capire se l'allenamento e l'alimentazione che si seguono siano efficienti o inadeguate.

Solo una sana e adeguata alimentazione contribuisce a rendere l’organismo efficiente ed in grado di affrontare gli impegni di allenamento e di gara. Non esiste alcun atleta la cui condizione fisica non possa essere “migliorata” da un programma alimentare personalizzato, anzi è vero il contrario: la prestazione dell’atleta può essere condizionata da un’alimentazione inadeguata o insufficiente.
L’alimentazione degli atleti deve tenere conto di più fattori: caratteristiche antropometriche individuali, programmi di allenamento, impegni agonistici.
Per il periodo dell’allenamento lontano dagli eventi agonistici, è preferibile una dieta prudente molto simile all’alimentazione consigliata ad un non podista. Non bisogna cadere nell’errore di pensare che chi fa sport consuma molto e quindi deve assumere una grossa quantità di energia. Il corpo umano è in grado di convertire molto efficacemente l’eccesso calorico della dieta in grassi di deposito; il concetto di un maggiore introito calorico può essere “valido” per il runner che si allena quotidianamente e certamente non lo è per coloro che svolgono tre allenamenti settimanali, valutando una spesa media di 600-700 kcal ad allenamento con un totale settimanale di 1800-2100 kcal, ed uno giornaliero di 250-300 kcal. Viceversa non bisogna diventare neanche runner “grasso fobico” che oltre a non differenziare tra grassi “buoni” (mono e poliinsaturi, omega 3) e “potenzialmente dannosi”, non valuta che consuma anche grassi per produrre energia. I lipidi (grassi) della dieta funzionano da trasportatori delle vitamine (A,D,E,K,) ne bastano circa 20 g al giorno assunti con una buona dieta per svolgere questo compito. E' importante dunque rimarcare che una riduzione dei lipidi (grassi) nella dieta comporta una corrispondente riduzione nell’apporto di vitamine liposolubili e questo può addirittura causare un’ipovitaminosi, ciò però non ne giustifica l'abuso.
Il podista “grasso fobico” oltre a ridurre la quota di grassi riduce inevitabilmente anche i carboidrati assunti con la dieta, con la conseguente riduzione del glicogeno epatico e muscolare (fonte di deposito del glucosio). Quando le scorte di glicogeno scarseggiano, a causa di un’alimentazione povera di carboidrati, si attivano vie metaboliche che sintetizzano glucosio a partire dalle proteine. Il prezzo che l’organismo paga in conseguenza di questa scelta metabolica è la riduzione della massa muscolare con conseguente sovraccarico dei reni, che devono provvedere a eliminare una maggiore quota di residui azotati derivanti dal catabolismo delle proteine. L’assunzione giornaliera di carboidrati deve essere adeguata a mantenere le scorte relativamente scarse di glicogeno dell’organismo. D’altra parte, quando le scorte cellulari di glicogeno sono sature, l’eccesso di zuccheri viene convertito e immagazzinato nell’organismo sotto forma di grassi.
L'alimentazione abituale del podista deve quindi seguire queste semplici regole:
1) pane e pasta devono essere assunti ogni giorno nella giusta misura;
2) verdura e frutta non devono mai mancare;
3) alternanza del consumo di secondi piatti quali carni, pesci, uova e moderazione del consumo di salumi e formaggi;
4) bevande: acqua. Moderare il consumo vino e birra. Evitare i superalcolici e le bevande zuccherate;
5) limitare al minimo indispensabile condimenti e dolci.

Scritto da Salvatore Pisana e tratto dal sito www.runningitalia.it

 

Fa bene correre tutti i giorni?

Nel nostro Paese la corsa è uno degli sport più esercitati da professionisti e principianti, non solo per l’estrema praticità ma anche per i suoi aspetti benefici. Tuttavia, come tutte le altre attività sportive anche la corsa non è esente da rischi, soprattutto quando si cerca di strafare. Capita spesso, infatti, che tanti appassionati rischino di andare ben oltre le proprie capacità scegliendo di allenarsi tutti i giorni, o comunque dal lunedì al venerdì, senza mai concedersi una pausa tra un allenamento e l’altro.

Poiché, in questo caso, uno dei pericoli più concreti è sicuramente quello di incorrere nel sovrallenamento, abbiamo pensato di provare a scongiurare una simile eventualità dando una risposta ad una delle più annose domande del mondo della corsa, ovvero: “Correre tutti i giorni fa bene o male?”. Trovare una risposta convincente non è poi così semplice, poiché molto dipende dal singolo individuo e dal suo modo di correre, ma noi ci proviamo comunque esaminando i pro e i contro della corsa giornaliera.

QUALI SONO I PRO?

Partendo dal presupposto che correre una volta a settimana provoca più danni che benefici, in particolare al cuore che viene sforzato ma non allenato, e che due sole uscite settimanali sono ben poco efficaci, non solo per la salute ma anche per le prestazioni, possiamo affermare che allenarsi dai tre giorni in su determina un netto incremento dei benefici e delle prestazioni e che, in particolare, chi si allena cinque giorni a settimana è in grado di recuperare più del 95% di capacità aerobica. Correre con continuità, quindi dai 5 ai 7 giorni a settimana, fa bene solo nel momento in cui si esegue un allenamento blando e non dunque orientato all’incremento della forza e della resistenza, in quanto un allenamento ad alta intensità indurrebbe uno stato di sovrallenamento e necessiterebbe per forza di una pausa, anche di un solo giorno, per ristorare e ristrutturare la muscolatura stressata e sfibrata.

Anche se il ritmo della corsa deve essere piuttosto lento, correre tutti i giorni per circa mezz’ora, o al massimo 45 minuti, comporta alcuni vantaggi, come:
- la fortuna di mantenersi allenati tenendo costantemente attiva la muscolatura senza troppa fatica;
- la possibilità di ottimizzare il peso bruciando prevalentemente i grassi. Un quarantenne che corre 6 volte alla settimana ha in media una riduzione del peso corporeo del 5%;
- l'opportunità di migliorare la funzionalità cardiaca. Recenti studi americani, eseguiti su alcune persone monitorate per sei mesi, hanno rivelato che correre 45 minuti al dì per 5 giorni alla settimana riduce i trigliceridi nel sangue e aumenta il colesterolo buono di circa il 15%;
- l'utilità nel combattere lo stress influenzando l’effetto che questo ha sulla chimica cerebrale. Correre quotidianamente ha anche un effetto positivo nella gestione dell’ansia e degli attacchi di panico.

QUALI SONO I CONTRO?

Correre tutti i giorni fa male nel momento in cui non si è ben allenati, si percorrono troppi km e si esegue un allenamento ad alta intensità. In tutti gli altri casi invece, cioè quando si corre da tanto tempo e ci si limita a ridurre l'andatura e il chilometraggio, non è poi così rischioso.

Tuttavia non mancano gli aspetti negativi, come:
- i possibili guai fisici, in quanto superati i cinque giorni consecutivi aumenta il rischio di infortuni a ossa e tendini a causa delle continue sollecitazioni. La situazione si aggrava in caso di attività fisica intensa;
- l’impossibilità di seguire un programma di allenamento ad alta intensità al fine di incrementare forza, resistenza e migliorare la distanza, in quanto il ritmo della corsa deve essere blando per evitare di affaticare troppo la muscolatura;
- lo stoccaggio dei carboidrati in grassi, poiché a causa dell’andatura lenta della corsa i primi non vengono direttamente bruciati per ottenere energia ma immagazzinati come grassi;
- il pericolo di stufarsi e perdere la giusta concentrazione psicologica a causa della monotonia e della difficoltà a mantenere sempre lo stesso ritmo. Esiste dunque il serio rischio di perdere facilmente la motivazione.

In conclusione possiamo affermare che correre tutti i giorni non fa male a patto che i runners più allenati, e non certamente i neofiti della disciplina, scelgano un programma d’allenamento giornaliero a bassa intensità.

Articolo scritto da: Milena Usai e tratto da http://www.benesserevillage.it

 

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